Non Solo Ferri Vecchi - CONSERVAZIONE DELLA STORIA DELLA NOSTRA SOCIETA'

Bachelite

11 Ottobre 2010

Vecchio Calamaio in Bachelite….il calamaio, l’inchiostro, la stilo…. e la Biro ( Bic ! )

Tags: , , , , , , , , , , , ,

Vecchio Calamaio in Bachelite

Tra i moltissimi oggetti della mia collezione di bachelite, oggi ho recuperato questo …… un calamaio…. 

L’ho acquistato per il solito discorso che è fabbricato in bachelite ( Vedi Post ) ……ma anche per sapore e il profumo di antico che un calamaio ha…. 

Molti sanno bene che cos’è un calamaio…..ma forse i giovani abituati a usare Pc, Mac e telefonini necessitano di qualche informazione in più…… 

Il calamaio, derivato dal greco antico calamos, è un piccolo recipiente, spesso di vetro, porcellana, argento, ottone o peltro.
Posto vicino alla persona che deve scrivere, contiene l’inchiostro utilizzato per la scrittura per mezzo del calamo o penna rappresentata da un’asticella appuntita o da una estremità di una penna di un grande uccello o da un pennino infisso su di un’asticella.
Il calamaio serve anche per contenere l’inchiostro per riempire le penne stilografiche.
L’inchiostro contenuto nel calamaio è un liquido colorato (spesso nero) con vari pigmenti quali: nerofumo, bacche vegetali, minerali vari, con il quale si tracciano i segni ideografici o sillabici su superfici sottili, di colore chiaro o bianco, quali i papiri, la carta o la pergamena.
Un calamaio spesso ha un coperchio per evitare l’evaporazione, la fuoriuscita accidentale o l’eccessiva esposizione all’aria dell’inchiostro.
Il nome del calamaio deriva dal greco antico calamos, come già detto, che era il nome che si dava all’asticella appuntita e alla parte terminale della penna (d’uccello) usati per scrivere e che, come tali, venivano intinti nel calamaio. 

Vecchio Calamaio in Bachelite

Dallo stesso termine deriva la parola calamita data ai magneti naturali utilizzati per la realizzazione delle prime bussole; ciò era dovuto al fatto che l’ago di dette bussole era appoggiato su di una leggera asticella (appunto un calamo) per farlo galleggiare nell’acqua e così ruotare indicando il nord magnetico.
Alcuni esperti inoltre sostengono che il termine derivi dal termine copto “kalamrk”, ovvero calamaro, animale acquatico ripieno dell’inchiostro tipico dei calamai. 

La “penna”……
Nel corso dei secoli, gli Amanuensi ( nell’antichità non era ancora stata inventata la stampa; i libri potevano essere riprodotti solo copiandoli a mano: nasce così la figura degli amanuensi, umili ed anonimi monaci che avevano il compito di riprodurre pazientemente a mano le Sacre Scritture, opere greche e latine, testi di grandi storici, poeti e naturalisti….) si avvalsero per scrivere di uno strumento molto particolare: la penna d’oca, antenata della nostra attuale stilografica.
La penna d’oca, per poter scrivere, doveva essere sottoposta ad un trattamento particolare : occorreva metterla a mollo e lasciarla per alcuni giorni in una soluzione acida (es. aceto) in modo che diventasse elastica e poi bisognava tenere solo il tubetto centrale, cioè quello attaccato alla pelle, tagliando via la punta della penna in quanto inutile. Una volta persa la sua rigidità, la penna doveva essere riscaldata ad un livello critico: non troppo altrimenti la penna si sarebbe bruciata, né troppo poco altrimenti il procedimento non sarebbe avvenuto.In questo modo la penna diventava trasparente ed elastica, ma al contempo resistente. Infine, occorreva prendere una lama ed effettuare un taglio che conferisse alla penna la struttura di un pennino. 

L’inchiostro….
L’inchiostro, che ha origini antichissime, fu il supporto indispensabile ed insostituibile per la scrittura. I romani lo chiamavano ‘Atramentum’ e poi i latini ‘Encaustum’ e ‘Melanion’.
Se si sbagliavano le miscele, l’inchiostro poteva cancellarsi, spandere, essere sensibili alla luce, all’umidità, provocare muffe, cambiare colore e provocare anche gravi ed irrimediabili danni di corrosione ai supporti utilizzati (carte, pergamene, ecc…) e questo poteva avvenire subito dopo l’essiccazione oppure in un tempo più o meno lontano, a seconda delle reazioni chimiche indotte. 

Nei testi antichi è trattata l’arte di fabbricare inchiostri e le più comuni misture erano l’estratto di campeggio (albero con tronco e corteccia bruno grigio) dal cui legno color rosso scuro si estraeva un colorante rosso e l’estratto a base di carbone vegetale di colorazione nera (da qui il detto nero come l’inchiostro e nero come il carbone). Altre miscele prevedevano l’utilizzo anche di fuliggine, nerofumo, vari tipi di carbone ed addizionati a gomma arabica, acqua, vino, aceto e perfino urina.
L’obiettivo era quello di giungere alla fine della lavorazione ottenendo un inchiostro particolarmente stabile nel tempo, che non presentava sostanze dannose per il supporto usato (carte, pergamene, ecc…) e che non scoloriva alla luce. Tuttavia, questi inchiostri detti al nerofumo, erano sensibili all’umidità e pertanto, in presenza della stessa, l’inchiostro tendeva ad espandersi e perfino a cancellarsi.
Quindi, la preoccupazione di eliminare questa grave minaccia e di consentire la diffusione di testi indelebili, spinse a trovare la soluzione definitiva al problema.
Infatti, una piccola aggiunta di solfato ferroso all’inchiostro nerofumo, produceva vari ossidi di ferro che penetravano nelle fibre della carta (o altri supporti), e lasciavano tracce indelebili.

 

Dopo il 1100, l’inchiostro venne ulteriormente perfezionato e si ottenne l’inchiostro ferro-gallico, ricavato dalle noci di galla, resine ed acqua in soluzione coi sali di ferro.
Una sua variante prevedeva la soluzione anche con solfato di ferro e vetriolo cioè acido solforico diluito.
Le sue caratteristiche qualitative e di resistenza lo resero di uso comunissimo anche se, purtroppo, essendo uno dei principali responsabili della corrosione, ha spesso comportato la cancellazione di ” tratti” scritti o stampati nei documenti storici.
La continua sperimentazione portò a ricavare innumerevoli misture vegetali che venivano sciolte in vino, birra, aceto e miele con aggiunta di gomma arabica. Il loro dosaggio era mantenuto rigorosamente segreto e, specialmente nelle abbazie, i monaci effettuavano accurate sperimentazioni in quanto, eccedendo con i contenuti metallici (solfati) o aumentando l’acidità del composto, in un tempo più o meno breve, si aveva l’irrimediabile e definitiva corrosione della carta o della pergamena, con la conseguente perdita di tutto il lavoro che era stato fatto. 

Vecchio Calamaio in Bachelite

Di miscela in miscela, si affermò sugli altri, l’inchiostro metallogallico o gallotannico detto ‘encaustum’ (dal greco egkauston = impresso a fuoco, encausto, termine passato poi a definire la tintura rossiccia usata dagli imperatori bizantini per sottoscrivere lettere e decreti) e conosciuto anche dagli Egizi.
Pur essendo conosciuto come dannoso per il materiale librario, questo inchiostro, nato dalla combinazione di solfato ferroso, sostanze tannanti, ossia tannino e acido gallico (sostanze estratte dalle noci di galla, escrescenze che si formano su alcuni tipi di querce), un legante (gomma arabica o miele) e un solvente (acqua, a volte vino o aceto), era stabile alla luce, era indelebile ed anche piuttosto resistente all’umidità anche se oggi vediamo che molti scritti antichi sono divenuti color marrone (non più neri brillanti come in origine) per la trasformazione chimica subita dai composti ferrici (ossidazione). 

Furono creati anche inchiostri a colori: infatti le bellissime iniziali tracciate in rosso negli incipit di molti antichi manoscritti devono il loro colore brillante ad un legno di un albero particolare, detto legno del Brasile, scoperto dai Portoghesi nella parte centrale del Sud America ed importato in epoca medievale. Il legno polverizzato veniva lasciato per molti giorni a bagno nell’aceto o nell’urina e poi mescolato con gomma arabica ottenendo così un inchiostro rosso fuoco. Gli inchiostri rossi a base di cinabro (solfuro di mercurio color rosso vermiglio) e di minio (ossido salino di piombo di color rosso), oltre a fissare per sempre lo splendore gotico dei titoli, delle lettere iniziali e degli incipit che fregiano i codici miniati e gli antichi libri degli amanuensi, furono usati anche per la fabbricazione di smalti e di vetri legati a piombo.
Un altro tipo di inchiostro rosso era invece fabbricato con cocciniglia macinata con lacca.
Il pigmento di base per gli inchiostri blu era l’ indaco e veniva estratto dalle foglie dell’ indigofera tinctoria.
Solo alla fine del 1600 venne scoperto il colore blu di Prussia, un pigmento di origine minerale che sostituì pian piano l’indaco, fino ad affermarsi completamente dopo il 1800 ed esistente ancora oggi seppur con formule diverse. 

Per quanto riguarda le varie misture, ricordo anche il post fatto in precedenza riguardo una macina che serviva a tale scopo.

Nel XVIII secolo, con l’avvento dei pennini metallici, gli inchiostri divennero più sofisticati e funzionali allo scopo di evitare effetti corrosivi anche sulle penne d’oca e sui pennini stessi e fu così che alcuni industriali produssero inchiostri all’anilina i quali, pur essendo composti da elementi maggiormente tossici, si diffusero largamente a partire dalla metà del 1800 poiché erano di gran lunga meno corrosivi, erano scorrevoli, non spandevano, asciugavano velocemente ed erano assai stabili e non corrosivi nel tempo. 

Nei primi del Novecento fu usato anche l’acido fenico, che però corrodeva i pennini d’acciaio e pertanto gli stessi dovevano essere ricoperti con un altro materiale resistente come la placcatura d’oro).
L’inchiostro migliore di tutti fu però quello cinese, la cui composizione risulta alquanto laboriosa: grasso di bue, pesci vari, corna di animali, perle, oro, giada e prodotti della combustione, ossia legno, carbone, resine di pino e olio di sesamo, tutti polverizzati e mescolati molto accuratamente col mortaio.
I bastoncini ottenuti con queste miscele, venivano poi sciolti in acqua di fonte, sulla pietra da inchiostro, fino ad ottenere un impasto molto fine poiché i cinesi scrivevano coi pennelli e non con i pennini. 

Dal XVIII secolo vennero modificate le formule, i sistemi di produzione, di stampa e di essiccazione e venne migliorato il controllo dell’elasticità della “vernice” sino ad arrivare alla produzione dei pigmenti e delle resine sintetiche. 

Gli ultimi cento anni sono stati fonte di talmente tanti mutamenti che, attualmente, esistono diversi tipi di inchiostro per ogni genere di supporto, per caratteristiche di utilizzo, di destinazione ecc.

 

Un recente studio condotto sui resti di monaci vissuti prima del Cinquecento e dediti alla ricopiatura dei Testi Sacri e rinvenuti nel cimitero di un’abbazia in Danimarca, attesta che la scrittura avvelenò gli amanuensi in quanto si ritiene che fosse una pratica comune quella di leccare il pennello per la scrittura per renderlo più appuntito.
Secondo questa ricerca, condotta nella Danimarca Meridionale e pubblicata sul Journal of Archaeological Science, questi monaci sarebbero morti a causa dell’esposizione alle elevate quantità di mercurio contenuto in uno degli inchiostri che impiegavano nelle loro minuziose opere di scrittura, il rosso.
Ciò che lega il mercurio al rosso è il cinabro, un minerale costituito principalmente da solfuro di mercurio e che veniva usato in virtù del suo colore, un rosso acceso e molto intenso. Ancora oggi, gli incunaboli medievali, ovvero i primi libri stampati con caratteri mobili, non vanno mai toccati perché potrebbero rivelarsi pericolosi per la salute anche a distanza di secoli. 

Il “calamaio”…..
Come abbiamo visto prima, l’inchiostro doveva quindi trovare posto in un contenitore che limitasse l’evaporazione, la fuoriuscita accidentale o l’eccessiva esposizione all’aria dell’inchiostro. 

A tale scopo, furono pertanto utilizzati gusci, conchiglie, corna di animali e tazze metalliche fino a che si arrivarono a creare eleganti flaconi e bottiglie di vetro che ne accrebbero la propaganda e la diffusione, complici i nomi suggestivi affibiati agli inchiostri in essi contenuti come: il nero magico, l’antracene giapponese, nero intenso da cancelleria, il modernissimo, l’universale, l’indamino verde ecc., uniti ad invitanti aggettivi quali: scorrevolissimo, di un bellissimo nero inalterabile, assolutamente eccellente, qualità perfettissima ecc.
Il trionfo dei calamai continuò con la diffusione dei calamai da viaggio ( alcuni dei quali con chiusura stagna di sicurezza che permetteva il trasporto dell’inchiostro contenuto senza alcuna perdita), piccoli astucci e addirittura scrittoi portatili di cuoio e metallo che si attaccavano alla cintura e che, oltre al cornetto dell’inchiostro, erano completi di penne, pennini, raschietti, sigilli, ceralacca e carta. 

 

Il “pennino”….. 
Come abbiamo visto prima, nel XVIII secolo si diffuse il pennino, che pian piano andò a sostituire le penne d’oca…
Le prime sporadiche comparse del pennino risalgono al 1691 quando, le religiose di Port Royal, usavano pennini di rame che fabbricavano da sé.
Nel 1717 i verbali degli stati generali dei Paesi Bassi venivano redatti con pennini di forma tubolare in argento e montati su cilindri/penne anch’essi d’argento.
Nel 1738, Voltaire scrisse a Thierot per fare un’ ordinazione di pennini d’oro e nel 1763, la principessa di Carignano donò al piccolo Mozart pennini d’argento per il suo settimo compleanno.
In quegli anni, il loro mancato successo fu dovuto principalmente al fatto che presentavano nel loro uso problemi di difficile soluzione tecnica ed erano comunque strumenti d’ élite,
costruiti a mano uno per uno. Solo la rivoluzione industriale permetterà al pennino di affermarsi come indiscusso intermediario della scrittura.
Gli inventori dei primi pennini artigianali furono gli inglesi Gillot, Mason, Mitchell, e Perry ed in particolare Gillot, grazie al suo apprendistato con il celebre coltellinaio Skinner,
apprese i segreti del procedimento industriale di fusione, tempra e laminazione dei metalli e, capace di sfruttare i nuovi macchinari, cominciò a produrre manufatti industriali il cui prezzo era notevolmente inferiore rispetto a quelli realizzati artigianalmente. 

Vecchio Calamaio in Bachelite

Rispetto all’Inghilterra, nel resto d’Europa la diffusione del pennino procedeva più lentamente. 

Parallelamente all’industria del pennino, nacque quella delle scatole per contenerli, realizzate principalmente con latta e cartone ed impreziosite da serigrafie, etichette colorate, disegni e grafica d’effetto per diffondere al meglio il loro contenuto.
I Francesi riportavano sulle etichette scrittori famosi, eroi romantici, episodi di storia militare mentre, quelle italiane, esaltavano la monarchia e soprattutto il regime fascista, il militarismo, l’audacia, la velocità e la vittoria ; quelle tedesche avevano invece l’aquila nera, croci uncinate e scene militari.
Del pennino vi sono state oltre 10.000 varianti. Vennero fabbricati infatti pennini con nomi più o meno importanti, con le forme più varie ( con torri, con manina e dito), pennini protesi per combattere il crampo dello scrittore, pennini di vetro ed anche pennini d’oro e d’argento con steli o cannucce (stilofori) in cui inserirli altrettanto pregiati e, per i più abbienti, pennini con pietre preziose. 

Nonostante l’ immensa diffusione del pennino, che fece arricchire molti industriali e che sembrava non aver termine, ad un certo punto ogni produzione cessò.
La sua vita durò circa un secolo, ma, nonostante ciò, il pennino ha svolto un ruolo fondamentale per la diffusione della scrittura. 

Nel XIX secolo, si pensò che fosse più sensato mettere l’inchiostro nella penna piuttosto che la penna nell’inchiostro e fu da questa ovvia conclusione che nacque l’idea della stilografica, nata negli Stati Uniti e portata dal fronte dai nostri soldati alla fine della prima guerra mondiale.
Attualmente, in commercio sono comunemente reperibili pennini come i Parker, gli Shaffer, i Reform ,mentre è più difficile trovare i Rotring e sopratutto i Platignum .
I pennini in acciaio sono molto robusti e resistenti, sono poco costosi e durano più a lungo delle penne d’oca, ma sono molto duri e poco elastici. La scrittura col pennino d’acciaio è più costante di quella con la penna d’oca, ma è al contempo più dura e meno scorrevole in quanto il tratto dolce e naturale che si ottiene con la penna d’oca è inimitabile. 

La scelta più importante riguarda le dimensioni della parte squadrata del pennino in quanto condizionano le dimensioni delle lettere che si vanno a scrivere e pertanto mentre ad esempio il gotico richiede pennini più larghi, i caratteri di cancelleria prediligono un pennino più stretto e così via. 

Vista la fantasia dei produttori e il basso costo del pennino, questa realtà pareva non dovesse tramontare mai, ma nel 1938, il giornalista ungherese László József Bíró (1899-1985) trovò una soluzione al problema delle macchie che i pennini lasciavano sui fogli sostituendo il tipo d’ inchiostro che si usava per scrivere con quello ad essiccamento rapido delle rotative che stampavano i giornali. Il tutto  osservando un gruppo di bambini che giocava a biglie…..egli vide la traccia che alcune di queste biglie bagnate lasciavano sul pavimento…… 

Nel 1943 esce il brevetto ed è a questo punto che entra il gioco il barone francese Marcel Bich (1914-1994)   e il successo arrivò quando il barone compro’ il brevetto ed inizio’ a commercializzarla in tutto il mondo presentandola al grande pubblico.
Nel 1945 in Argentina con lo pseudonimo di “Eterpen”, anche se da allora fu associata al nome di Bich il quale divenne ricchissimo, a differenza del suo inventore che morì povero. 

  

Leave a comment

RSS feed for comments on this post. TrackBack URL

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.